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Gerardo Cianfarani
| Terra degli avi miei a me negata!
Da te i passi miei lungi guidava
e in altri lidi l’orme mie fissava
il fato che ogni vita tien legata.
Da te, l’antica gente mia traeva
l’umano nutrimento stornellando
e sotto il cielo tuo riposando
dei dì futuri, sorte non temeva.
Pur se consunti l’abito e i calzari,
mancando dei raccolti l’abbondanza,
pur l’animo s’apriva alla speranza:
parevan regge i rudi casolari.
Delle stagioni il tempo percorrendo
tra risa ed il calor di gente amica,
alterna si faceva la fatica:
or con l’aratro o il frutto raccogliendo.
Quando i campi son zolle odorose
e poi che tutte l’erpice sfarina,
dimora è del seme ogni china
e verde tutto fan l’ore piovose.
Or che la spiga d’oro vien recisa,
per larga fila vanno i mietitori
e sotto il sol cocente son cantori:
la fronte china e di sudore intrisa.
La falce tengon salda nella mano,
dell’altra fan di canna lunghe dita,
per téma e far più spiga custodita
e al petto la si stringe col suo grano.
Poi, che di fascio in fascio vien posata,
della sua stessa paglia fan legaccio
e coi covoni presi in un abbraccio,
ne fanno gruppi con la spiga issata.
E vanno i carri lenti verso l’aia,
stracolmi delle spighe tintinnanti,
che i miti buoi tirano sbuffanti:
la trebbiatura è giornata gaia!
Dei piccoli, gli occhi fa brillare
quel fragorio di cinghie e battitori
e lo sbuffar dei logori motori
che tutti quei congegni fan girare.
Accorre gente a dare il proprio aiuto
che d’uso è poi, di certo, ricambiato
e da un bicchier di vino rallegrato
il laborioso giorno vien compiuto.
Ed ecco il lieto suon dell’organetto
che la giornata colma e rende gaia,
e canti e danze son per tutta l’aia
tra risa ed il calore d’ogni petto.
Così nei campi va ogni faccenda,
che s’anche di sudore, certo, è fatta
non v’è nessuno che noia combatta
o al quotidiano affanno che s’arrenda.
Vita campestre dell’antica gente
che dai remoti tempi si ripete
con modo ed usi che più si compete
e con letizia esprime ciò che sente.
Io teste fui... per poco, di tal vita
prima d’andar ramingo per il mondo:
certo non v’è un luogo più giocondo
che dove nostra vita è concepita.
Tempi eran quelli che l’umano spirto
lode maggior rendeva a sua natura,
e non al vago ardor che poco dura
ed il cammino asseta e fa più irto.
Quel lavorare insieme in armonia
sapore dava al pan che s’otteneva
e con amore ognun benediceva
e briciola giammai si dava via.
Ora, che il frutto vien per altra via
e nelle case regna l’abbondanza,
al godereccio andar si dà importanza
e la modernità divien mania.
Come in città, qui vita si conduce
ed ogni luogo intorno ognun conosce,
mentre le antiche arti disconosce:
il rilucente nuovo ognun seduce.
Del tempo andato restan pochi segni
che riconoscer può sol chi lo visse,
ché le pupille altrove tiene fisse
la nuova gente ad inseguir disegni.
Viuzze fangose tra siepi di rovi,
percorse da bambino a piedi nudi,
nastri d’asfalto sono, neri e crudi
e un somarello più non vi ritrovi.
Non più diletto prova il giovincello
con semplici balocchi o il fido cane,
ritiene sian certo case vane
andar su prati o in riva a un fiumicello.
La fionda, un cerchio, più non tiene cari
o per le vie corse a perdifiato...
da nuove attrattive è catturato:
dal rombo dei motori e i cellulari. |
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